di Walter Cortella
Per il terzo appuntamento del 46o Festival Macerata-Teatro è scesa in lizza l’Accademia «F.Campogalliani» di Mantova che ha presentato La dodicesima notte di Shakespeare, per la regia di Maria Grazia Bettini. È un gradito ritorno quello dei mantovani, dopo l’indiscusso trionfo ottenuto nella edizione dello scorso anno che li ha consacrati veri mattatori della manifestazione. Come si ricorderà, in quella occasione il loro superbo Pigmalione si assicurò ben cinque premi, tra i quali l’ambito Trofeo «A.Perugini» per il miglior spettacolo. E quest’anno, decisi a bissare quel successo, si sono cimentati con una delle più celebri opere del drammaturgo inglese, nella riduzione curata da Luigi Lunari, autore e critico teatrale di fama internazionale. Il testo di Lunari risulta più godibile, grazie anche ad alcune felici «contaminazioni» che lo rendono più spassoso e più vicino al nostro gusto. Il linguaggio risulta, infatti, moderno ed attuale. La trama è un intreccio tra il filone plautino della commedia degli equivoci e la tradizione popolare dell’ambientazione in luoghi remoti. La commedia inizia con il cantastorie Feste, che racconta di una tempesta nel corso della quale due fratelli gemelli, Viola e Sebastiano, si perdono di vista. Si salveranno sì, ma si ritroveranno solo alla fine della commedia. La giovanissima Viola, sotto il falso nome di Cesario, entra come paggio al servizio del ruvido Orsino, duca di Illiria.
Il suo nuovo signore, perdutamente innamorato della fredda contessa Olivia che invece lo detesta, gli affida il compito di messaggero d’amore, ma in questo per lei insolito ruolo maschile fa, suo malgrado, breccia nel cuore della giovane e algida signora. La sua posizione diventa insostenibile poiché nel contempo la ragazza è innamorata di Orsino. L’intricata situazione si sblocca nel finale quando fa il suo ingresso in scena il fratello Sebastiano, simile nell’aspetto alla sorella Viola/Cesario. Allora ogni cosa va al suo posto: il duca scopre di amare Viola, mentre Olivia è libera di esternare il suo amore per il paggio, cioè per Sebastiano. Ma all’interno della vicenda che vede coinvolti, in una sorta di quadrilatero ad intreccio, Viola, Orsino, Olivia e Sebastiano, il grande Shakespeare inserisce una seconda storia assai divertente. Si tratta di una feroce burla perpetrata ai danni del povero Malvolio, il fedele maggiordomo di Olivia, segretamente innamorato della sua padrona. Autori della crudele birbonata sono sir Toby, cugino di Olivia, e sir Andrew, due sfaccendati e gaudenti a tempo pieno, ospiti fissi della contessa. Dà loro manforte Maria, la cameriera di Olivia, con la sua amica Fabiana. Il meschino Malvolio, moralista e altezzoso, diventerà lo zimbello di tutti quando, in calzamaglia gialla e giarrettiere «alla schiava», si presenterà al cospetto della «sua» Olivia, nell’illusione che anche lei sia innamorata.
Ma una cocente delusione attende il povero Malvolio, oggetto di scherno da parte di tutta l’allegra compagnia. Ancora una volta la «Campogalliani» ha allestito uno spettacolo di prim’ordine, sia sul piano interpretativo che su quello artistico. Conferma così di essere una delle migliori formazioni nell’ampio e qualificato panorama del teatro amatoriale italiano. Ogni suo allestimento è un successo e ad ogni festival o rassegna il suo già invidiabile palmarès diventa sempre più ricco. Ha la fortuna di poter contare su una regista, cresciuta alla scuola del Mo Aldo Signoretti. È molto preparata e sempre capace di trovare interessanti e innovative soluzioni che sono la cifra inconfondibile delle sue regie. Intorno a lei c’è un bel gruppetto di attori «storici» di lunga esperienza, capeggiati da Diego Fusari (Orsino), Adolfo Vaini (Malvolio), bravissimi entrambi come sempre, ed altri (non facenti parte di questo cast), in grado di dar vita ogni volta a personaggi sempre caratterizzati alla perfezione. Ma accanto ad essi ci sono molti giovani assai promettenti, come Alessandra Mattioli (Viola), Valentina Durantini (Olivia) e Luca Genovesi (Sebastiano). Questa volta, però, vorrei soffermarmi su alcuni personaggi «minori», interpretati rispettivamente da Michele Romualdi, Giancarlo Braglia e Claudio Madoglio. La loro performance è stata di assoluto valore. Romualdi (Feste, l’arguto buffone) ha eseguito, con una bella voce adatta al ruolo di cantastorie, sue musiche originali, accompagnandosi con la chitarra. Braglia (sir Toby) ha caratterizzato in modo molto convincente il suo personaggio, impenitente beone ma sempre misurato nell’alzare il gomito.
È stato bravo nel non eccedere, rimanendo in ogni frangente nell’ambito di una accettabilissima sobrietà. Per la cronaca, il simpatico attore mantovano nella edizione 2014 del Festival «La Torre che ride» di Portorecanati è stato premiato quale miglior attore non protagonista per aver «caratterizzato in modo brillante ed incisivo una figura eccentrica, in una vicenda altrimenti patetica». Non da meno è stata l’esibizione di Madoglio (sir Andrew, degno compagno di bisboccia di sir Toby) che con la sua mole ha conferito una carica di grande umanità e simpatia al suo ingenuo e goffo personaggio, spesso vittima anch’esso di innocenti e riusciti scherzetti. All’azzeccato binomio sir Toby – sir Andrew si deve la prorompente vis comica dello spettacolo, sottolineata dai ripetuti applausi del pubblico. Come in tutte le ballate dei cantastorie, gli elementi scenici sono ridotti all’essenziale: un praticabile, un drappo che evoca una vela, alcuni teli che danno l’idea del mare in tempesta, due sedie e un tavolo che all’occorrenza diventa la «gabbia» dell’infelice Malvolio. Una tale scenografia, magari contestata da qualcuno per la sua essenzialità, ha il grande pregio di essere pratica e di lasciare ampio spazio alla immaginazione dello spettatore. Ancora una considerazione sui costumi, disegnati da Diego Fusari e da Francesca Campogalliani: come le scene, anch’essi sembrano non avere epoca. Presentano una foggia che vagamente richiama il classico, con elementi decisamente moderni.
(Foto di scena di Maurizio Iesari)