CAMPOGALLIANI
Un interno domestico si staglia su un profilo di case sghembe, aguzze, con un cenno di schema labirintico. Giusto la proiezione dello stato mentale smarrito, sul punto di derealizzarsi, di Helen...
Un interno domestico si staglia su un profilo di case sghembe, aguzze, con un cenno di schema labirintico. Giusto la proiezione dello stato mentale smarrito, sul punto di derealizzarsi, di Helen Bastion, signora di 76 anni. Chiusa nel suo bozzolo, non fa che rimuginare un ricordo d’infanzia, il giorno in cui il padre tornò dalla guerra. Un sipario che la inonda d’affetto, ma che risaputo annoia marito e figlia, preoccupati dei suoi vuoti di memoria breve, che le provocano panico, nelle passeggiate per le strade del quartiere che non riconosce più. Indelicatamente tendono a riprenderla, e la innervosiscono con le pressioni di una visita alla dottoressa. Lei rifiuta, quelli insistono, e sortiscono i battibecchi immancabili in un interno americano. È il tema Assenze, dramma sull’alzheimer di Peter Floyd, nome nuovo della scena americana. In Italia, prima volta, per opera della Campogalliani. La pièce è costruita con abilità e sagacia: per 100 minuti di spettacolo, senza cambi di scena (Zolin e Fusari), solo d’illuminazione (Codognola), e accorte scelte musicali, specie quel contrappunto sentimentale all’attacco e alla fine (Martinelli), corre verso la morte ineluttabile. Il tempo è compresso, finanche in uno stesso dialogo, e fugge via con le parole inopportune, i fantasmi della mente, i congiunti che svaniscono e riappaiono mesi dopo.
Anche gli spazi sono un unico spazio, il salotto diventa l’abitazione della figlia, poi la stanza in una struttura protetta. La morte giunge in un attimo, come in un baleno s’è consumata l’esistenza. La comunicazione si fa quasi impossibile, quando i significati si volatilizzano nella mente di Helen, che raccoglie suoni insensati. Il dialogo privilegiato è con l’ombra d’un medico, che esiste solo nel suo sipario mentale. Lo connota come un simbolo sessuale, e lo accetta facendosi dire che il matrimonio “è stato un trauma durato 50 anni”. Quell’ombra giovanile serve a evocare i suoi 30 anni, i corteggiamenti e le note su cui ballava, e gratificando la sua vanità ne vince la paura (nell’America benestante c’è una figura professionale, non religiosa, che aiuta a morire). Ma prima, Helen cerca di riconciliarsi con la figlia, sa d’averla oppressa con la volontà di realizzare le sue ambizioni attraverso i suoi successi. Patetica e commovente auspicherebbe un po’ di complicità. Francesca Campogalliani, a disagio coi litigi, cresce moltissimo nella 2ª parte, ed è Helen, anima e corpo. Piace la misura di Eleonora Ghisi (Barbara), cattiva e banale al punto giusto con l’odiosa amata madre, cui ripete: «Lo fai apposta, hai sempre saputo come rendermi infelice». E funziona la leggerezza di Stefano Bonisoli, il medico (ma non canti Sinatra). Completano il cast Gabriella Pezzoli (dottoressa e direttrice), Margherita Governi (la nipote) e Mario Zolin (il marito). La regia di Zolin governa il testo con mano sicura.
Alberto Cattini