Il testo di Stefano Massini è magnifico. Scolpisce un crescendo di stati d’animo che fanno venire la pelle d’oca per vividezza: dallo smarrimento allo sconcerto, all’incredulità delle vittime, incapaci esse stesse di immaginare fino a quale punto si fosse spinto l’orrore nei lager. Una situazione inventata a dar vita al contesto storico della Shoah, che Frediano Sessi descrive nelle note al programma di sala.
Gli attori dell’accademia Campogalliani, tutti, sono bravissimi, con la punta di diamante di Roberta Visentini, nulla meno che eccellente per la profondità di introspezione del personaggio. Processo a Dio è al teatrino d’Arco di Mantova fino a lunedì 27 gennaio, Giorno della memoria, per la prima volta in forma scenica. Mediante l’azione essenziale, la regia di Mario Zolin esalta la forza della parola e la sua potenza evocatrice, il ritmo incalzante del raccolto, il turbinio di sentimenti ed emozioni che dal palcoscenico si irradia in platea.
Le domande si ripetono da cinquemila anni, afferma il rabbino (lo stesso Zolin): dov’era Dio mentre si perpetrava lo sterminio di massa? Non al padiglione 41, dove la morte ha vinto. E se l’uomo è stato fatto a sua immagine e somiglianza, allora il colpevole è Dio? Dio ha reso schiavo, venduto, tradito e illuso l’uomo, privandolo infine dell’umanità. Forse l’unica risposta è la presa di coscienza.
Davanti a un tribunale (Paolo Di Mauro, Giampiero Marra), il giorno dopo la liberazione del campo di Majdanek nell’estate 1944, viene messo sul banco degli imputati un gerarca (Michele Romualdi) che si riteneva una divinità per il potere derivante dell’arma stretta tra le mani. Il colpo si inceppò e la vittima designata rimase nuda sul terreno ghiacciato, ma viva. Elga Firsch aveva una vita. Era un’attrice, abituata a cappelli di piume e abiti color turchese, prima di diventare un numero.
Adesso l’ebrea ha comperato il nazista che si credeva Dio per processarlo. lei abituata a recitare, “mette in scena” la verità, la sola ad avere valore rispetto all’inutile ricerca di un colpevole. Dal suo atto d’accusa, confermato da prove, emergono le proporzioni delle atrocità: persone usate come animali di fatica, come cavie da esperimento, come agglomerati di capelli, denti, ossa da commerciare. La verità colpisce i protagonisti e gli spettatori, come un pugno nello stomaco. Una lacerazione dell’anima. Il buco nero di un’umanità divisa tra chi esibisce una svastica nero-rossa e chi una stella gialla. Ma i simboli uniformano. A Majdanek c’è chi muore morendo e chi muore vivendo.
Maria Luisa Abate