Mantova - cultura e spettacoli
Cinque ebrei e un ariano in divisa da SS si ritrovano nel magazzino di un lager
“Processo a Dio”
la bella prova della Campogalliani
piace e commuove
torna alle scene
ed è bravissima
nel trovare i toni giusti
Da principio un capitano delle SS chiude in un magazzino di Majdanek (lager poco distante da Lublino, in Polonia orientale) un ebreo bendato; in realtà si tratta di uno scambio di divise, e forse di ruoli. Corre l’estate del ’44, e l’Armata rossa ha liberato i prigionieri, e catturato le guardie.
A ripristinare le identità nello spazio del magazzino dietro il crematorio, è un’ex attrice tedesca, Elga Firsch, che ha convocato sul posto due anziani della sinagoga. La sua intenzione è di montare un “processo a Dio”. In vero si dovrebbe dire a Jahvè, per l’illusione ebraica d’essere “il popolo eletto”, e pertanto deciso a porsi la domanda dove fosse Dio nel lager di sterminio. Di qui i cinque capi d’imputazione che Elga propone al dibattito, con tanto di prove raccolte negli uffici del campo. In realtà il sillogismo che ha in mente Stefano Massini, l’autore del dramma, è un sofisma, un ragionamento capzioso, per niente concludente. Così che per sciogliere il processo ricorre a un colpo di teatro.
Di là della soluzione adottata, la pièce risulta interessante per la tensione che la regia di Mario Zolin, che interpreta anche il rabbino, e ha ideato la scenografia, sa imprimere a quella singolare assemblea di cinque ebrei e un ariano rivestito della divisa. Nella seconda parte, coinvolge per la rabbrividente esposizione delle prove raccolte che costituiscono una summa degli orrori del lager. In tale veste assurge a protagonista assoluta Elga, che segna il ritorno alle scene di Roberta Vesentini. L’attrice sa ricreare con pathos irridente il momento della sua fucilazione. Era scampata alla morte solo per l’arma che inceppatasi non aveva fatto fuoco. Di seguito può mostrare le prove con cui migliaia di ebrei furono trucidati, e torturati dai medici che in infermeria sperimentavano i gradi del dolore su corpi di ragazzi.
La Vesentini è bravissima nel trovare i toni esatti per rievocare quelle scene, e adeguarvi le espressioni del viso nei modi d’un grottesco che disegna con dignità, pur tra folate d’angoscia per l’oltraggio patito dagli ebrei era, di un’enormità disumana. Non solo Roberta, tutto il gruppo di scena sa reggere la prova con bella misura, lo stesso Zolin e Di Mauro nel ruolo del figlio, Rodelli e Marra, i due anziani, e Romualdi, in quella del nazista, sanno ricreare un mondo che una massa di folli vorrebbe rinnovare oggi. Lo spettacolo abbassa le luci di Codognola nei momenti in cui la memoria richiede una concentrazione particolare, e la selezione musicale di Martinelli si fa più dolente nel sentire recitare le ultime proposizioni. Commozione ed applausi.
Alberto Cattini