Campogalliani ad alto livello con «La fiaccola sotto il moggio»
Dopo la prima al Bibiena, in primavera, e poi in altre cittá, «La fiaccola sotto il moggio» inizia il cammino delle repliche al Teatrino di Palazzo d’Arco. Spazio ristretto, favorevole alla concentrazione e ricezione della musicalitá del linguaggio simbolista primo ’900, alla rivisitazione di posture e stilemi recitativi e costumi del tempo remoto. Così, siamo spettatori del tempo ritrovato, complici di una lussuria di corde vocali dispiegate e lamentazioni rituali ondivaghe assillanti, che si esauriscono solo con la richiesta di Gigliola, l’eroina di D’Annunzio: «Spegnete/le fiaccole, volgetele,/spegnetele nell’erba,/o uomini. Agitare/io la mia nel mio pugno/non potei. Tutto fu/in vano». Nella casa del Sangro, sono le tre nutrici (L.Sartorello, G.Pezzoli e A.Bianchi) e donna Aldegrina (F.Campogalliani), a cantare la dissoluzione del casato; ad agitarsi dietro il velo che scende sul catafalco, come anime implacate, e avide di nuove vittime. Ed è Gigliola (R. Avanzi), lunghe chiome rosse e una tunica come quella della Duse (nelle fotografie della ’Città morta’), a inscenare, abbracciata ora con le une ora con le altre, quadretti nel gusto drammatico del tempo. Soprattutto a osare sguardi eccessivi senza stonarli, a distendere la voce nel doloroso ricordo della madre. E puó forzare i toni e i timbri perché suoni e smorfie sono controbilanciati dalla recitazione dimessa ma efficace di nonna e nutrici. Nella scena 3ª, l’artefatta e maligna postura shakespeariana di Tibaldo (D.Fusari) è resa possibile dalla più diretta semplicitá plebea di Betrando (A.Flora); e le esternazioni dolenti e quasi incomprensibili del serparo (A.Vaini), dal trattenuto impeto di Gigliola. Dei 10 personaggi, pleonastico il troppo lagnoso Simonetto (F.Finazzer), di facciata l’immonda femmina di Luco (P.Mantovani). In quell’Abruzzo retrodatato alla stagione borbonica di Ferdinando I, Gigliola presume di avere il «diritto santo», la mano «pura», per uccidere l’assassina della madre, divenuta sua matrigna. E sapendosi incapace di vivere dopo il delitto, s’è fatta mordere dall’aspide velenoso. Il padre, per mettere a tacere la propria vergogna, l’ha preceduta. Adesso, padre e figlia sono entrambi cadaveri sotto il velo. Tace la colonna sonora, ritmico dinamica, di Nicola Martinelli. Si spengono le luci di Giorgio Codognola. L’oscuritá avvolge la scena tardo gotica di Diego Fusari (suoi e della Campogalliani i costumi). Guidati con acume e sensibilitá da Grazia Bettini, i bravi attori della Campogalliani raccolgono un altro successo.
Alberto Cattini