Nato a Pescara nel 1863 da famiglia della media borghesia, studia fino alla licenza liceale al collegio Cicognini di Prato: a 16 anni pubblica la raccolta di liriche "Primo vere", cui fa seguito "Canto novo" (1882), di palese filiazione carducciana. Iscrittosi alla facoltà di lettere a Roma, egli conduce una vita brillante e movimentata, tra avventure mondane e duelli: sotto il profilo artistico, i fermenti del decadentismo europeo paiono evidenti nel suo primo romanzo, "Il piacere" (1889).
I successivi "Giovanni Episcopo" (1891) e "L’innocente" (1891) proseguono sulla medesima linea, pur se nel secondo - trasposto per il cinema nel 1976 da Luchino Visconti, al proprio commiato registico - s’affaccia un bisogno di rigenerazione e rinnovamento, ugualmente presente nelle liriche del "Poema paradisiaco" (1891), anticipatrici di modi e stilemi che caratterizzeranno, dipoi, la poesia crepuscolare. Coerente con l’ideologia espressa nei propri testi, nella vita pubblica il Nostro si fa eleggere deputato per la destra nel 1897 e s’imbarca nella propaganda interventista. L’attività di scrittore, intanto, prosegue con esiti alterni, divisa fra romanzi ("Il trionfo della morte", 1894; "Il fuoco", 1900) e drammi ("La città morta", 1899; "La Gioconda", 1899), concepiti nella splendida residenza della Capponcina, a Settignano, dove nel frattempo si è ritirato.
Qui nascono pure i primi tre libri ("Maya", "Elettra" ed "Alcyone") delle "Laudi del cielo, del mare, della terra, degli eroi", editi nel 1903; le tragedie "Francesca da Rimini" (1902), "La fiaccola sotto il moggio" (1905) e "Fedra" (1909), oltre al romanzo "Forse che sì forse che no" (1910). Di questo periodo, meritano un cenno a parte i drammi "La figlia di Iorio" (1904) e "La nave" (1909): il primo, segna il ritorno dell’autore a quell’universo abruzzese già di scena nelle "Novelle della Pescara" (1884). Riparato in Francia in volontario esilio, dopo aver perduto la propria abitazione per debiti, D’Annunzio scrive nella lingua del paese che l’ospita "Le martyre de Saint Sébastien" (1911), musicato da Debussy, ed il quarto libro delle "Laudi" ("Merope", 1912).
Tornato in patria all’esplodere del primo conflitto mondiale, si distingue per le sue imprese belliche (celebre la "beffa di Buccari" del 10 febbraio 1918): ferito ad un occhio, verga le pagine del "Notturno", opera sua tra le più perfette e compiute, percorsa da cupi presagi d’imminente fine e da una angosciata coscienza della morte. Ideatore, terminata la guerra, della marcia da Ronchi a Fiume, si ritira infine nella definitiva residenza di Gardone, da lui denominata il "Vittoriale degli Italiani" ove ivi si spegne nel 1938, dopo un lungo periodo d’isolamento, in seguito ad una emorragia cerebrale.
Allo stesso modo de La figlia di Jorio, andata trionfalmente in scena nel 1904, anche La fiaccola sotto il moggio si propone come una tragedia in versi di ambientazione abruzzese. D’Annunzio la scrive in un solo mese, nel febbraio del 1905, all’indomani della rottura del rapporto con la Duse, e subito dopo la rappresenta a Milano, al Teatro Manzoni, riscuotendo anche questa volta un notevole successo e avendo tra gli interpreti, nella parte di Simonetto, il figlioletto Gabriellino, celato dietro lo pseudonimo di Gabriele Steno.
A differenza di quello pastorale raffigurato nella Figlia di Jorio, l’Abruzzo qui disegnato da d’Annunzio non è però un archetipico luogo senza tempo, arcaico e barbarico, con i suoi tratti fortemente ancestrali e misterici, bensì un ben preciso ambiente storicamente definito, qual è il territorio di Anversa "presso le gole del Sagittario" nel terzo decennio dell’Ottocento, durante il regno di Ferdinando I di Borbone. Qui, alla vigilia di Pentecoste, nel castello dei Sangro, si consuma la fosca vicenda che porta Gigliola a voler vendicare la morte violenta della madre Monica, uccisa un anno prima dalla lussuriosa Angizia, la serva da tempo amante del principe Tibaldo che con questo delitto ha potuto diventarne la nuova moglie, in un contesto familiare dove sono evidenti i segni della decadenza morale: Tibaldo è succube di Angizia e suo complice; il fratellastro gli è legato da un ambiguo rapporto di odio, sotteso a una comune avarizia; il figlio diciassettenne Simonetto, fratello di Gigliola, minato dalla sifilide, è abulico rispetto a quanto gli accade attorno.
A lungo meditato nei primi due atti, il progetto di Gigliola, inteso a uccidere la matrigna e quindi suicidarsi per lavare in tal modo l’onta della complicità paterna nell’assassinio della madre, pare realizzarsi nel terzo atto grazie all’ospitalità che i Sangro hanno concesso al "serparo" Edia Furia, il padre di Angizia, da lei rinnegato. Gigliola sottrarrà infatti delle serpi velenose a Edia - che nel frattempo, scacciato dalla casa, se ne è andato lanciando sulla figlia una tremenda maledizione - e, in una scenografia illuminata dalla luce della fiaccola, si farà mordere, per poi correre nella stanza di Angizia, a ucciderla; la troverà però già morta, soppressa da Tibaldo che ha così voluto evitare che la purezza dei figli venisse contaminata da un delitto, ma ha soprattutto voluto seppellire nell’oblio le proprie vergognose colpe nei confronti di Monica.
Il moggio, una specie di piccolo tino usato come unità di misura per le granaglie, rimanda al mondo contadino, nel cui ambito si svolge la storia, mentre il detto "tenere una fiaccola sotto il moggio" significa "possedere una verità nascosta", che è appunto quella della farneticante e quasi folle Gigliola, la quale intuisce la vera causa della morte materna, ma non la manifesta ed è alla fine sopraffatta nel suo impeto vendicatore dal destino, implacabile signore delle ombre e unico arbitro delle vicende umane.
Definita dal suo stesso autore come "la perfetta delle mie tragedie", La fiaccola sotto il moggio ritrae la fine di una famiglia, moralmente disgregata dal male trionfante, e insieme di un’intera epoca, lasciando intravedere foschi presagi e inquietudini premonitrici su un presente che sfocerà di lì a qualche anno nella Grande Guerra. Sul piano poetico e drammaturgico è evidente come qui d’Annunzio torni a proporre la sua idea di un "teatro di poesia" dove la figura della protagonista rimanda alle Elettra di Eschilo, Sofocle, Euripide, attraverso l’ardua ricerca di un comune patrimonio di riti e di miti che sta alla base della tragedia antica e moderna, e che dalla Grecia fino a oggi è, secondo il Vate, condizione indispensabile per dar vita a una perfetta sintonia spirituale tra il poeta e il suo pubblico.
Gilberto Pizzamiglio
"LA FIACCOLA SOTTO IL MOGGIO è la perfetta delle mie tragedie"
Questo scriveva Gabriele d’Annunzio che una volta amò definirsi "operaio della parola". Perfetta non so. E’ senz’altro, a mio avviso, la sua migliore, così racchiusa com’è dentro un’asciuttezza di schemi narrativi quasi incomprensibili se rapportati allo stile letterario dell’autore. Il taglio delle scene è scarno, immediato e, per alcuni aspetti, modernissimo. Meno moderno, ma indubbiamente coinvolgente, è il linguaggio, la cui edificazione risente non poco del modo fluviale, tipicamente dannunziano, di usare parole desuete, privo com’è di quel rapporto diretto con la lingua parlata tanto caro invece al suo contemporaneo Luigi Pirandello che polemicamente sosteneva.
"Scrivere BENE un dramma o una commedia non significa far parlare i personaggi in una forma letteraria, cioè in un linguaggio non parlato. Questo è scrivere BELLO. Bisogna far parlare i personaggi come, dato il loro carattere, date le loro qualità e condizioni, nei vari momenti dell’azione debbono parlare."
Ma nella "parlata" del serparo Edia Fura e di Angizia, i personaggi più vicini al popolo che vi siano nella FIACCOLA, non si riscontra quel rapporto diretto con la lingua parlata a Luco dei Marsi, vicino alla piana del Fùcino da cui provengono, se non per alcuni limitati vocaboli di scarso interesse.
E così parlano tutti i personaggi della FIACCOLA, senza nessuna distinzione tra nobili e popolani, adulti e ragazzi. Secondo le affermazioni di Pirandello, d’Annunzio scrive dunque BELLO, facendo teatro (e letteratura) riconducendo tutti i suoi personaggi a se stesso e al suo stile personalissimo, sostenendo i loro dialoghi con reminiscenze letterarie precedenti (Sue e non), parole spesso desunte , con conseguente sfoggio di arcaismi, arditezze sintattiche, voli linguistici e sonori che non toccano quasi mai terra, toscanismi, invenzioni, pure invenzioni letterarie comunque non prive di fascino e di musicalità di cui si compiaceva molto: "Io sono un mistero musicale con in bocca il sapore del mondo" (Da I Taccuini)
La sfida sta proprio qui per me: rendere "parlato" un linguaggio che sulla carta non lo è affatto, quindi "non recitarlo", è l’idea di partenza che mi ha affascinato e spinto alla prova con la coscienza di avere tra le mani del materiale che trascina all’enfasi. E non l’ho toccata la parola dannunziana per piegarla alle mie necessità, non ho neppure tentato di tradurla nei tratti maggiormente ostici perché è fascinosa proprio nel suo arredo generale. L’ho lasciata intatta persino nella sua struttura sintattica per non far torto ad un autore che, nel bene e nel male, resta comunque uno dei più importanti della letteratura italiana del primo ’900
La mia sfida personale sarà vinta se lo spettatore accoglierà la ricchezza della poesia di D’Annunzio come un valore aggiunto ad un vocabolario ormai così povero e televisivo da far dimenticare la bellezza della lingua che ci appartiene.
Maria Grazia Bettini
Mentre la giornata dannunziana dedicata al centesimo anniversario della pubblicazione dell’ultimo romanzo di Gabriele D’Annunzio "Forse che sì forse che no" era in fase di programmazione, pensai di concluderla con la rappresentazione di una sua tragedia. Quando invitai l’Accademia Teatrale Campogalliani a cimentarsi in questa sfida immane si presentò il problema della scelta, con la preoccupazione di rappresentare un lavoro che potesse incontrare l’interesse e il gusto del pubblico di oggi. Con grande soddisfazione di tutti la scelta cadde su "La fiaccola sotto il moggio".
In questa tragedia D’Annunzio prende le mosse dallo spirito del teatro classico greco, costruito sulla sconvolgente rottura dei vincoli del sangue, ricreando un’atmosfera in cui le due protagoniste femminili, quali novelle eroine eschilee, ripetono il conflitto tra Elettra e Clitemnestra. Tuttavia D’Annunzio fa vivere la tragedia moderna come infrazione dell’onore e crea personaggi mossi da inquietudini moderne, conflitti familiari, malattie interiori e tensioni ossessive che potrebbero essere di interesse psicanalitico. In essi la verità ricercata come luce rimane purtroppo nascosta come la fiaccola di biblica memoria e così si trasforma nell’attualissima ricerca della vendetta del dolore della sofferenza e della morte. Del resto anche nella società attuale le forme più atroci di odio e crudeltà o la ricerca personale della morte si manifestano in ambito familiare, anche se in Gigliola la ricerca della morte è perseguita nell’inattualità di un morso di serpi velenose.
A questo proposito, La Fiaccola sotto il moggio diventa per D’Annunzio anche un veicolo per ostentare la sua familiarità con il folklore della sua terra, in un’atmosfera di autenticità; si racconta infatti che, ancora in tempi a noi molto vicini, a Cocullo in provincia de L’Aquila nel giorno della festa di San Domenico il primo giovedì di maggio, cacciatori di serpenti portavano dai campi i serpenti catturati per adornare la statua del Santo. In questo senso la tragedia dannunziana contiene curiosamente echi virgiliani che per la nostra Accademia, a Virgilio dedicata, è un dovere ricordare. Infatti le notizie sui serpenti che D’Annunzio mette in bocca al Serparo, padre rinnegato di Angizia, sono tratte dal libro VII (750-760) de "L’Eneide", laddove Virgilio cita i sovrani d’Italia che scendono in campo contro i Troiani invasori. Fra questi Virgilio cita il fortissimo Umbrone, re dei Marsi, che col canto e la carezza soleva diffondere il sonno alle vipere e alle idre e ne sedava la rabbia e guariva dai morsi con l’arte. Ma Virgilio annuncia che nulla salverà Umbrone da una freccia dardania e che anche il bosco di Angizia lo piangerà. Angizia, il cui nome significava "incantatrice di serpenti", era una divinità locale con un bosco sacro a lei dedicato presso il lago Fùcino; verosimilmente da lei D’Annunzio ha tratto il nome per la figlia del Serparo.
La fiaccola sotto il moggio, pur accolta alla prima nel 1905 al Teatro Manzoni di Milano con una certa freddezza, è stata più volte ripresa anche in tempi relativamente recenti, mostrando una certa fortuna grazie ad un suo indubbio fascinoso potere. Rappresentare oggi una tragedia dannunziana pone sicuramente vari problemi da affrontare: la scrittura in versi, parole che costituiscono una sfida per gli attori, situazioni statiche. Eppure sono problemi superabili, in quanto la Fiaccola contiene elementi di grande interesse per il pubblico: il verso piuttosto prosastico è scorrevole e ricco di nodi emotivi, la situazione è statica ma carica di emozioni nascoste che possono diventare esplosive, l’erotismo serpeggia inquietante.
L’Accademia Teatrale Campogalliani saprà sicuramente rivisitare D’Annunzio, riconoscendone il valore di grande poeta drammatico e tributandogli l’omaggio che è dovuto ad un uomo di teatro che, pur avendo mutato la storia italiana dello spettacolo, continua ad essere troppo assente dai nostri palcoscenici. Sono certo che gli attori dell’Accademia Campogalliani con la loro cultura, il loro coraggio, il loro entusiasmo, il loro carisma e la loro capacità di coinvolgimento emotivo sapranno esaltare i tesori poetici de "La Fiaccola sotto il moggio". A loro tutta la nostra gratitudine e l’augurio affettuoso di un caloroso successo.
Giorgio Zamboni
Presidente dell’Accademia Nazionale Virgiliana
Continuano le prevendite per assistere a "La Fiaccola sotto il Moggio" di Gabriele D’Annunzio, pièce portata in scena dalla Campogalliani al Teatrino d’Arco. Oggi e sabato lo spettacolo andrá in scena alle 20,45 mentre domenica alle 16 (info tel. 0376- 325363). Le prenotazioni si effetuano dal mercoledì al sabato dalle 17 alle 18.30. "La fiaccola sotto il moggio" si propone come una tragedia in versi di ambientazione abruzzese. D’Annunzio la scrive in un solo mese, nel febbraio del 1905, all’indomani della rottura del rapporto con la Duse, e subito dopo la rappresenta a Milano, al Teatro Manzoni, riscuotendo anche questa volta un notevole successo. L’opera è stata messa in scena dalla Campogalliani in aprile in un’unica rappresentazione al Bibiena in occasione del convegno di studi organizzato dall’Accademia Virgiliana per celebrare il centenario della pubblicazione del romanzo Forse che sì, forse che no. In questa tragedia D’Annunzio prende le mosse dallo spirito del teatro classico greco, costruito sulla sconvolgente rottura dei vincoli del sangue, ricreando un’atmosfera in cui le due protagoniste femminili, quali novelle eroine eschilee, ripetono il conflitto tra Elettra e Clitemnestra. Tuttavia D’Annunzio fa vivere la tragedia moderna come infrazione dell’onore e crea personaggi mossi da inquietudini moderne, conflitti familiari, malattie interiori e tensioni ossessive che potrebbero essere di interesse psicanalitico. Lo spettacolo, che porta la firma registica di Maria Grazia Bettini, le scenografie di Diego Fusari che con Francesca Campogalliani ha curato i costumi, vede come interpreti Rossella Avanzi, Diego Fusari, Francesca Campogalliani, Andrea Flora, Adolfo Vaini, Patrizia Mantovani, Federico Finazzer, Loredana Sartorello, Gabriella Pezzoli e Anna Bianchi. La direzione scenica è di Lorenza Becchi, il sonoro di Marina Alberini e Ermanno Balestrieri, le musiche di Nicola Martinelli e le luci di Girogio Codognola. Le repliche si protrarranno sino al 24 febbraio e le prenotazioni si potranno effettuare alla biglietteria del teatro. Per ulteriori informazioni contattare il numero tel 0376 325363 oppure consultare il sito internet www.teatro.campogalliani.it
Campogalliani ad alto livello con «La fiaccola sotto il moggio»
Dopo la prima al Bibiena, in primavera, e poi in altre cittá, «La fiaccola sotto il moggio» inizia il cammino delle repliche al Teatrino di Palazzo d’Arco. Spazio ristretto, favorevole alla concentrazione e ricezione della musicalitá del linguaggio simbolista primo ’900, alla rivisitazione di posture e stilemi recitativi e costumi del tempo remoto. Così, siamo spettatori del tempo ritrovato, complici di una lussuria di corde vocali dispiegate e lamentazioni rituali ondivaghe assillanti, che si esauriscono solo con la richiesta di Gigliola, l’eroina di D’Annunzio: «Spegnete/le fiaccole, volgetele,/spegnetele nell’erba,/o uomini. Agitare/io la mia nel mio pugno/non potei. Tutto fu/in vano». Nella casa del Sangro, sono le tre nutrici (L.Sartorello, G.Pezzoli e A.Bianchi) e donna Aldegrina (F.Campogalliani), a cantare la dissoluzione del casato; ad agitarsi dietro il velo che scende sul catafalco, come anime implacate, e avide di nuove vittime. Ed è Gigliola (R. Avanzi), lunghe chiome rosse e una tunica come quella della Duse (nelle fotografie della ’Città morta’), a inscenare, abbracciata ora con le une ora con le altre, quadretti nel gusto drammatico del tempo. Soprattutto a osare sguardi eccessivi senza stonarli, a distendere la voce nel doloroso ricordo della madre. E puó forzare i toni e i timbri perché suoni e smorfie sono controbilanciati dalla recitazione dimessa ma efficace di nonna e nutrici. Nella scena 3ª, l’artefatta e maligna postura shakespeariana di Tibaldo (D.Fusari) è resa possibile dalla più diretta semplicitá plebea di Betrando (A.Flora); e le esternazioni dolenti e quasi incomprensibili del serparo (A.Vaini), dal trattenuto impeto di Gigliola. Dei 10 personaggi, pleonastico il troppo lagnoso Simonetto (F.Finazzer), di facciata l’immonda femmina di Luco (P.Mantovani). In quell’Abruzzo retrodatato alla stagione borbonica di Ferdinando I, Gigliola presume di avere il «diritto santo», la mano «pura», per uccidere l’assassina della madre, divenuta sua matrigna. E sapendosi incapace di vivere dopo il delitto, s’è fatta mordere dall’aspide velenoso. Il padre, per mettere a tacere la propria vergogna, l’ha preceduta. Adesso, padre e figlia sono entrambi cadaveri sotto il velo. Tace la colonna sonora, ritmico dinamica, di Nicola Martinelli. Si spengono le luci di Giorgio Codognola. L’oscuritá avvolge la scena tardo gotica di Diego Fusari (suoi e della Campogalliani i costumi). Guidati con acume e sensibilitá da Grazia Bettini, i bravi attori della Campogalliani raccolgono un altro successo.
Alberto Cattini
Dal 15 gennaio la compagnia mantovana in scena al teatrino d’Arco con "La fiaccola sotto il moggio"
La stagione teatrale della Campogalliani prosegue al Teatrino di Palazzo D’Arco sabato 15 gennaio con la rappresentazione de "La fiaccola sotto il moggio" di Gabriele D’Annunzio. L’opera è stata messa in scena dalla compagnia mantovana lo scorso aprile in un’unica rappresentazione al Bibiena in occasione del convegno di studi organizzato dall’Accademia Virgiliana.
Un evento per celebrare il centenario della pubblicazione del romanzo ’Forse che sì, forse che no’. In questa tragedia D’Annunzio prende le mosse dallo spirito del teatro classico greco, costruito sulla sconvolgente rottura dei vincoli del sangue, ricreando un’atmosfera in cui le due protagoniste femminili, quali novelle eroine eschilee, ripetono il conflitto tra Elettra e Clitemnestra.
Tuttavia D’Annunzio fa vivere la tragedia moderna come infrazione dell’onore e crea personaggi mossi da inquietudini moderne, conflitti familiari, malattie interiori e tensioni ossessive che potrebbero essere di interesse psicanalitico. In essi la verità ricercata come luce rimane purtoppo nascosta come la fiaccola di biblica memoria e così si trasforma nell’attualissima ricerca della vendetta del dolore della sofferenza e della morte. Del resto anche nella società attuale le forme più atroci di odio e crudeltà o la ricerca personale della morte si manifestano in ambito familiare, anche se in Gigliola la ricerca della morte è perseguita nell’inattualità di un morso di serpi velenose.
A questo proposito, La Fiaccola sotto il moggio diventa per D’Annunzio anche un veicolo per ostentare la sua familiarità con il folklore della sua terra, in un’atmosfera di autenticità; si racconta infatti che, ancora in tempi a noi molto vicini, a Cocullo in provincia de L’Aquila nel giorno della festa di San Domenico il primo giovedì di maggio, cacciatori di serpenti portavano dai campi i serpenti catturati per adornare la statua del Santo.
In questo senso la tragedia dannunziana contiene curiosamente echi virgiliani che per la nostra Accademia, a Virgilio dedicata, è un dovere ricordare. Infatti le notizie sui serpenti che D’Annunzio mette in bocca al Serparo, padre rinnegato di Angizia, sono tratte dal libro VII (750-760) de ’L’Eneide’, laddove Virgilio cita i sovrani d’Italia che scendono in campo contro i Troiani invasori.
Fra questi Virgilio cita il fortissimo Umbrone, re dei Marsi, che col canto e la carezza soleva diffondere il sonno alle vipere e alle idre e ne sedava la rabbia e guariva dai morsi con l’arte. Ma Virgilio annuncia che nulla salverà Umbrone da una freccia dardania e che anche il bosco di Angizia lo piangerà. Angizia, il cui nome significava ’incantatrice di serpenti’, era una divinità locale con un bosco sacro a lei dedicato presso il lago Fùcino; verosimilmente da lei D’Annunzio ha tratto il nome per la figlia del Serparo.
Lo spettacolo porta la firma registica di Maria Grazia Bettini. Le prenotazioni per tutte le repliche che si protrarranno sino al 20 febbraio potranno effettuarsi presso la biglietteria del Teatrino di Palazzo D’Arco dal mercoledì al sabato dalle 17 alle 18,30 a partire da venerdì 7 gennaio. Per ulteriori informazioni: tel 0376 325363 - teatro.campogalliani@libero.it - www.teatro.campogalliani.it