Uno strano giallo questo "Assassino per forza".
Gli ingredienti del genere teatrale ci sono tutti: un morto scomodo, l’assassina, e per sua stessa iniziale ammissione si può star certi della sua identità, un commissario perspicace, la suspence e i colpi di scena ben distribuiti nel corso di tutta la vicenda il cui esito è incerto fino alla fine.
E c’è perfino chi sta per diventare, appunto, "assassino per forza".
E tuttavia, è davvero uno strano giallo, poiché fin dall’inizio, appena dopo che l’omicidio si è palesato, il pubblico s’accorge che questi elementi sono in realtà strumentali per l’autore il cui assunto appare invece quello di tracciare un ritratto disincantato, grottesco e a tratti perfino ironico di ricca una famiglia francese degli anni ’30, governata da interessi egoisticamente crudeli, tormentata da contrasti interni e unita solo per salvare le apparenze di un perbenismo bugiardo e di facciata.
Il lutto incombe come una cappa su individui che trovano nell’incapacità di amare la volontà contorta e per loro irrinunciabile di rifiutare il destino, o almeno di tentare di farlo, per ripararsi dall’invadenza del giudizio altrui. E il dramma dei falsi valori s’allarga idealmente e tragicamente a un’intera società.
La storia prende vivacità battuta dopo battuta palesando un sapore di battagliera consuetudine quotidiana fra personaggi che, presi a prestito direttamente dalla realtà, dialogano con un linguaggio rapido, essenziale, sapientemente teatrale.
Ma attenzione: le cose non sono mai come sembrano e la vita a volte, per fortuna, prende strade imprevedibili e inattese.
Marc Gilbert Sauvajon (Valence 20 settembre 1909 - Montpellier 15 aprile 1985), laureatosi in legge e iscritto alla Scuola di Scienze Politiche, aveva deciso d’intraprendere la carriera diplomatica quando, attratto fatalmente dalla letteratura, soprattutto teatrale, abbandonò gli studi per inserirsi nel mondo giornalistico.
Nel 1935 scrisse la sua prima opera per il teatro, ma il successo arrivò con il secondo lavoro e continuò fino alla fine con circa cento sceneggiature cinematografiche e una trentina di commedie che lo consacrarono come uno dei maestri della grande commedia francese, capace di proporre un repertorio salottiero con trame bizzarre e a volte paradossali da cui fanno capolino piccole verità quotidiane, alla maniera di Labiche e Feydeau.
Fra i lavori di prosa più spesso ancora rappresentati: "L’anatra all’arancia", "Tredici a tavola", "Adorabile Giulia", fra i films più famosi "Ninotchka", "Michele Strogoff", "Era di venerdì 17", "La Madelon" e molti altri ancora.
Una porta divide la morte dalla vita, ciò che è stato e che lo spettatore può immagina soltanto, da ciò che invece vede prendere forma e via via mutare secondo l’agitato andirivieni dei personaggi. Un nodo inscindibile da cui il regista non distoglie mai l’attenzione, guidando gli attori ad una lettura rispettosa e incalzante del testo ma, soprattutto, sollecita ciascun personaggio a lasciar emergere la propria umanità contorta, inquietante e comunque sempre vera.
Dunque, un’indagine sui caratteri e sui comportamenti che considera gli avvenimenti come involucro indispensabile al cui interno bisogna però mettere a nudo ciò che è ancora più importante: l’essenza dell’anima.
Carnefici e vittime si mescolano in un groviglio crudele che non risparmia nessuno, compreso il vecchio, e ingombrante Cipriano, despota senza cuore ma di lungimirante saggezza, che la regia ha voluto, vero deus ex machina, presenza costante e incombente, pur se immateriale.
Così come ha scelto di porre un forte accento sulla vera tragedia familiare, cioè la cronica mancanza d’amore da cui tutto deriva, e che però s’apre, alla fine, almeno per qualcuno, alla speranza del riscatto.